
Cinque parole a vanvera su unastorta
Determinazione, calendar, coccole, smemoratezza, blu.
Una dote/caratteristica che non può mancare a una persona inclusiva
La capacità di rinunciare a un po’ del proprio privilegio, se serve a rendere qualcun altro un po’ più liber*.
Cosa ami di più della tua vita?
Questa è una domanda che non mi ponevo da tantissimo tempo ed è stato molto bello pensarci. Mi ha costretto a guardare le cose che amo, anziché quelle che non mi piacciono, come si fa di solito. E mi sono accorta che non è semplice scegliere una cosa sola: mi sembra un buon segno! Se devo scegliere, direi l’indipendenza, intesa proprio in senso fisico e materiale: la possibilità di vivere da sola, di alzarmi dal letto o vestirmi o farmi da mangiare, di prendere la macchina e andare dove voglio, di fare sesso come preferisco. Cose scontate, no? No. Da bambina non ero così sicura che la mia disabilità me lo avrebbe permesso, e riuscirci è stata una sorpresa. Da grande, poi, ho capito che non tutte le persone possono farlo: compiere da soli queste semplici azioni quotidiane è un privilegio – temporaneo? – legato all’avere una certa condizione di salute anziché un’altra. E a come questa condizione di salute interagisce con altri fattori, per esempio economici (ad esempio, ho una macchina adattata per la guida manuale, e me la sono potuta permettere).
Quindi sì, in questo momento amo il fatto di avere questo temporaneo privilegio, e ho voglia di godermelo finché c’è. Appena l’ho acquisito, da ragazzina, ce l’avevo molto ben presente ed era un motivo di soddisfazione costante, poi piano piano mi sono abituata. Quindi grazie per avermelo fatto ricordare!
Ah già… thè o caffè?
Fortuna che questa è una domanda semplice, perché come vedete sulle domande serie mi scatta il pippone. Tè tutta la vita!
Quali sono le condizioni necessarie per cui una persona riesca a fare coming out in maniera serena all’interno di un contesto?
C’è stata una persona o più persone che ti hanno ispirato o guidato verso la consapevolezza attuale sulla tua identità e orientamento?
A me ha aiutato vedere la cosa molto normalizzata nel mio contesto di vita. Ad… ispirarmi è stata la ragazza che per prima ha flirtato con me – ecco, non so se avrei usato proprio la parola “ispirarmi”, come dire, “arraparmi abbestia” forse sarebbe più appropriato.
Dalla tua bio ti definisci “Attivista disabile, lesbica, poli e con varie altre fastidiose identità.” Come si influenzano tutti questi aspetti nella tua vita?
Dunque, premetto che l’identità che sento più presente nella mia vita è quella di persona con disabilità, perché alla fine gli aspetti dell’identità che diventano salienti sono quelli più in contrasto con l’ambiente che ti circonda: quelli che ti distinguono, e che magari si scontrano in continuazione con un mondo che quell’identità non la prevede. Nel mio ambiente, essere lesbica è molto sdoganato (e questo è un altro bel privilegio, lo so), per cui è un’identità che scorre quasi sempre sullo sfondo, non mi costringe a lotte particolari. Avere una disabilità si scontra invece in continuazione con una serie di barriere e ostacoli, il che a sua volta mi costringe a fare l’attivista per poterli superare. In molti casi incarno queste identità in maniera un po’ separata, perché acquistano rilevanza in contesti differenti: se sto a un tavolo di confronto col Comune sulle barriere architettoniche, sono lì in quanto persona disabile, il mio essere lesbica e poli non ci azzecca molto. Ma le mie identità entrano sicuramente in contatto in almeno un paio di situazioni. La prima è quando provo a frequentare ambienti LGBT e non sono accessibili per me: sono senz’altro rimasta esclusa da alcuni contesti e ho avuto meno possibilità di socializzazione in questo ambito, con cui infatti interagisco perlopiù tramite le dating app. La seconda situazione è appunto quella del dating in sé, dove il fatto di essere lesbica, disabile e poliamorosa restringe tanto il numero di persone che sarebbero a loro agio nell’uscire con me. Penso che dover combinare tutte e tre questa identità mi abbia reso molto più difficile la vita di relazione (e se devo dir la verità credo che l’elemento più svantaggiate in questo ambito sia l’essere poli!).
In che consiste il laboratorio sulla sessualità femminile “Sessfem” a cui hai collaborato? Quali sono gli stereotipi sessuali in cui una persona con disabilità si scontra ed esistono laboratori o altro che trattano questo tema?
Il laboratorio Sessfem è un percorso costituito da circa sei mesi di incontri settimanali, durante i quali un gruppo di una ventina di persone affronta una serie di argomenti in qualche modo legati – ma in termini molto ampi – alla sessualità femminile: si parla di anatomia e safer sex, ma anche di comunicazione, rapporti di potere, relazioni, sex work. Per approfondire i contenuti viene utilizzata una dispensa autogestita, tramandata negli anni e man mano aggiornata con nuovi contributi. Il laboratorio originario è nato a Berkeley ormai molti anni fa ed è stato “importato” in varie città d’Italia. Quanto agli stereotipi sessuali sulle persone con disabilità… ne ho incontrati diversi. Il più comune è che avere una relazione, anche solo sessuale, con una persona disabile sia intrinsecamente più difficile, impegnativo, faticoso; che richieda un carico di cura, o un coinvolgimento particolare, incompatibile per esempio con la “botta e via”. In realtà le situazioni delle persone disabili possono essere diversissime: non tutte hanno necessità di assistenza, chi ce l’ha spesso preferisce farsi assistere da personale pagato e non dal partner, e poi chiaramente ci può essere anche chi ha necessità di questo tipo, ma insomma tutto davvero molto legato al caso concreto. Poi credo che alcune persone possano avere dubbi sulla effettiva possibilità fisica delle persone disabili fare sesso, sulla funzionalità degli organi genitali e così via. Anche qui, in realtà le casistiche possono essere le più varie, a seconda della disabilità.
Di laboratori sulla sessualità delle persone disabili ne ho visti pochi, ogni tanto salta fuori qualche iniziativa organizzata da associazioni delle persone disabili stesse, ma in maniera “spot”.
La disabilità è una condizione legata al rapporto fra la persona, l’ambiente e i contesti sociali e culturali in cui si manifesta. Una società inclusiva dovrebbe sempre muoversi in base a questo presupposto. Secondo te, quanto siamo lontani oggi da questo obiettivo?
Moltissimo. La stessa definizione di disabilità secondo il modello biopsicosociale – che avete correttamente citato, noto con piacere – non è affatto conosciuta in quanto tale. La maggior parte della gente (e anche delle istituzioni) si rifà al cosiddetto “modello medico”: hai una disabilità perché hai una menomazione, o una malattia, e quindi la si affronta solo tramite la cura e la riabilitazione, senza modificare l’ambiente, perché si dà per scontato che, finché hai quella menomazione, non puoi pretendere di interagire con l’ambiente al pari degli altri: è “normale” che resti escluso, dipende da te, dalla malattia, e non dall’inadeguatezza del contesto.
Parlando del tuo attivismo per i diritti delle persone con disabilità, quali sono secondo te ad oggi le azioni concrete che si possono fare per portare a una maggiore sensibilizzazione su questo tema?
È molto difficile, non ho una ricetta, anche perché “questo tema” è in realtà “moltissimi temi” e sensibilizzare sull’autismo non è la stessa cosa che sensibilizzare sulle barriere architettoniche o sull’inclusione lavorativa. Credo che sia utile che noi persone disabili ci sforziamo, quando riusciamo, di parlarne, parlarne e ancora parlarne, in maniera concreta, facendo gli spiegoni sulle nostre vite a persone che non immaginano minimamente che, boh, legare la bici a un palo può bloccare del tutto la mobilità di una persona in carrozzina o provocare gravi infortuni a una persona cieca che ci inciampa. E ho fatto solo un esempio fra mille di ostacoli generati in buona fede perché non c’è alcuna informazione, perché le persone con disabilità non sono rappresentate, non sono visibili.
A chi vuol essere un* buon* alleat* direi:
- Chiediti sempre se il luogo in cui stai entrando, l’evento a cui stai partecipando o che stai organizzando sarebbe accessibile a chi ha una disabilità. Ricordando che “disabilità” può voler dire essere in carrozzina, non vederci, non sentirci, non tollerare luoghi troppo rumorosi o troppo luminosi o affollati, e moltissime altre cose. Chieditelo e chiedilo a chi è responsabile di quei contesti, solleva sempre il tema indipendentemente dalle soluzioni che puoi trovare: lotta contro la nostra invisibilità.
- Contesta e decostruisci la narrazione dominante secondo cui l’esclusione delle persone disabili è un male necessario e inevitabile, perché “costa troppo” o “non c’è altra soluzione”: sono narrazioni rese accettabili dall’esistenza di un preciso ordine di priorità nei valori, un ordine che finché rimane implicito viene dato per scontato e non può essere discusso.
- Dai spazio alle persone con disabilità perché parlino direttamente; chiedi a loro di cosa hanno bisogno. Non sostituirti a loro, ma non restare neanche zitt*: come gli etero possono – e devono – reagire di fronte ai discorsi omofobi, così un* normodotat* può contrastare i discorsi abilisti.
- Partecipa a manifestazioni, raccolte firme, proteste e iniziative varie per i diritti delle persone con disabilità: ad oggi sono movimenti estremamente di nicchia, dove si coinvolgono in genere solo le persone direttamente interessate dal problema. Eppure ci sono ingiustizie macroscopiche, che se accadessero ad altri segmenti della società solleverebbero le folle. Per dirne una: le persone con grave disabilità motoria non hanno diritto all’assistenza personale. Che significa: non possono alzarsi dal letto o decidere quando fare pipì o quando uscire di casa, perché dipendono per queste cose dall’aiuto del caregiver familiare, spesso i genitori. E questo perché lo Stato non dà i soldi necessari ad assumere assistenti pagati. Quando i genitori non ci sono più, si finisce segregati in una struttura residenziale. Non è forse una violazione delle più intime libertà personali, per cui dovremmo scendere tutt* in piazza tipo adesso?
Quali cause legali hai promosso contro le barriere architettoniche e perchè? Ci sono state esperienze che hai vissuto in prima persona che ti hanno fatto capire che era necessario prendere questa iniziativa?
Ne citerò una: ho fatto causa per discriminazione al Comune, proprietario di una struttura data in convenzione ad associazioni LGBT, perché quella sede non era accessibile. Ci sono arrivata dopo un percorso fatto di tentativi di interlocuzione andati a vuoto e, devo dire, non mi sono sentita tanto supportata da alcune delle persone che, all’epoca, gestivano quel posto, perché temevano che sollevare un polverone sul tema mettesse a rischio la loro permanenza lì. in realtà è andata molto bene, e se tornassi indietro non mi lascerei intimidire: avrei dovuto avviare la causa molto prima. Grazie alla L. 67/2006, infatti, le persone disabili sono tutelate da qualsiasi situazione discriminatoria, e l’inaccessibilità rientra tra queste situazioni, ormai è confermato da molte sentenze. I giudici possono ordinare la rimozione delle barriere entro un termine definito. Nel caso in questione il percorso legale è stato un po’ lungo per la necessità di acquisire consulenze tecniche, ma si è concluso alla fine con un accordo tra le parti, senza bisogno di arrivare ad una sentenza. L’accordo ha previsto un piccolo risarcimento, sufficiente a coprire le spese legali, e l’impegno del Comune a rimuovere le barriere architettoniche da quel luogo: una parte dei lavori sono già stati svolti. Senza questa azione legale non si sarebbe smosso nulla, perché l’investimento richiesto era importante e il Comune non l’avrebbe mai messo in campo se non obbligato. Vorrei che si parlasse di questa esperienza perché la L. 67/2006 ha davvero ottime potenzialità in situazioni come questa. Le vie legali spaventano, ma a volte risolvono le cose, come d’altra parte avviene spesso anche nell’ambito dei diritti LGBT*.
Ci viene spontaneo farti una domanda che racchiude molti aspetti della vita oltre a quelli legati alla comunità LGBTQIA+.
Quanto è importante il linguaggio che usiamo quotidianamente e quanto questo influisce sulle discriminazioni verso un gruppo di persone?
Io penso che i dibattiti sul linguaggio da usare siano interessanti per le riflessioni che fanno sorgere, ad es. parlare della schwa ci fa interrogare sulle questioni di genere: la sua funzione è “sollevare un problema”, al di là della valutazione che si può dare sul suo uso. Mi interessa di più “stare” nel dibattito che prendere un partito e difenderlo a spada tratta. Sarà che nell’ambito della disabilità ogni pochi anni le definizioni considerate “corrette” si evolvono, ogni volta sulla scorta di riflessioni più che valide; non ne farei una religione e, sinceramente, ho l’impressione che la questione del linguaggio interessi più le persone normodotate delle persone disabili, che hanno spesso urgenze molto materiali, percepite come prioritarie. Per la serie: chiamami un po’ come ti pare, ma levami questa barriera, forniscimi l’assistenza, dammi un lavoro. Si potrebbe dire che il linguaggio importa perché influisce su queste discriminazioni? Lo vorrei vedere dimostrato. Detta brutalmente, i politici possono imparare a chiamarci “persone con disabilità” anziché “handicappati” perché qualche consulente glielo insegna, e tuttavia continuare a non finanziare la vita indipendente. Poi per carità, sentir usare il linguaggio giusto è sempre positivo e comunica l’idea di avere attorno persone che un pochino si sono informate.
Mi sembra però molto più interessante – e ben poco considerato – studiare, più che “il linguaggio”, inteso come le parole utilizzate, i discorsi e il loro rapporto col potere: in che termini parliamo delle persone disabili? Le rappresentiamo come persone da aiutare, come figure ispiratrici o come soggetti di diritti? Chi ha il potere di definire un posto “accessibile” e che effetti ha sulla realtà il dare o non dare questa definizione? Quali giustificazioni si utilizzano per legittimare la discriminazione, per rappresentarla come in fondo accettabile, o “male necessario”? Chi e in che modo esercita il potere di definire, attraverso i discorsi, quali libertà possono avere le persone disabili e a quale prezzo per la collettività? È capitato a noi di farlo? E così via.
Quali progetti contro la discriminazione hai realizzato e quali stai portando avanti attualmente?
A parte la causa legale che ho citato e altre simili, ho promosso con alcune associazioni un nuovo regolamento comunale che richiede a tutti gli esercizi commerciali (e non solo) alcuni adeguamenti all’accessibilità, anche se in vecchi edifici, e ora lottiamo perché non venga insabbiato ma applicato davvero.
Consiglia qualcosa da vedere, ascoltare o leggere per chiunque voglia approfondire l’argomento!
Una cosa semplice: seguite le pagine fb o instagram delle “witty wheels”, cioè Maria Chiara e Elena Paolini, due attiviste tutte d’un pezzo e con un una cultura notevole che spiegano in modo chiaro molti concetti importanti. Questo loro articolo ad esempio è una buona introduzione al concetto di abilismo (cioè la discriminazione delle persone con disabilità), mentre quest’altro spiega i termini usati per definire le persone disabili e le varie posizioni in merito. Poi, questo famoso video di Stella Young spiega invece bene cos’è l’inspiration porn, ovvero la tendenza a rappresentare le persone disabili come figure ispiratrici.